Focus On

L'inflazione Usa sale con i dazi, Fed sotto pressione
A giugno i prezzi al consumo sono saliti del 2,7%, ben oltre le previsioni di mercato: un chiaro segno che le aziende hanno iniziato a scaricare sui consumatori gli aumenti derivanti dai dazi imposti dall’amministrazione Trump. La Fed nella riunione di fine luglio resterà probabilmente ferma, per valutare l’evolversi della situazione, ma Trump moltiplica i suoi attacchi contro Powell
L'impennata dei prezzi che in molti si attendevano dai dazi non è arrivata. Ma l'inflazione americana - a mesi dall'entrata in vigore delle tariffe universali e settoriali decise da Donald Trump - inizia a dare segnali di tensione aumentando ulteriormente la pressione sulla Fed, alla quale il presidente americano continua a chiedere un taglio di tassi di interesse di tre punti. I prezzi al consumo a giugno sono saliti al 2,7%, sopra il 2,4% di maggio e oltre le previsioni del mercato. L'aumento su base mensile è stato dello 0,3%, il maggiore da gennaio. L'indice core, al netto di energia e alimentari, è comunque salito rispetto a maggio dello 0,2%, meno delle attese per il quinto mese consecutivo. A contenere i prezzi è stato il calo delle auto, mentre i beni più esposti alle tariffe di Trump sono aumentati a una velocità non vista da anni.
Il rialzo di giugno - secondo gli osservatori - indica che le aziende stanno iniziando a scaricare i dazi sui consumatori e questo lascia intravedere ulteriori aumenti nei prossimi mesi, quando andranno esaurite anche le scorte effettuate prima dell'annuncio delle tariffe. Nonostante l'accelerazione, gli investitori restano convinti che la Fed lascerà invariato il costo del denaro alla prossima riunione di fine luglio. E' probabile, infatti, che la banca centrale decida di attendere qualche altro mese prima di decidere come procedere, così da avere un quadro più chiaro dell'evoluzione dei prezzi e dell'economia. La prossima riunione della Fed cade il 29 e il 30 luglio, prima quindi della scadenza fissata da Trump per far scattare dazi reciproci più pesanti nei confronti di quei paesi che non hanno raggiunto accordi commerciali con gli Stati Uniti. Un'attesa che per la Fed, e soprattutto per Jerome Powell, potrebbe rivelarsi pesante da sostenere. Il presidente della banca centrale è sotto attacco costante di Trump e della sua amministrazione, che lo ritengono responsabile per il mancato taglio dei tassi incuranti che la Fed è un organismo collegiale e a decidere sono i 12 membri del Fomc, non il suo presidente.
Per mettere Powell all'angolo e indebolirlo, è già stato avviato il processo formale per la sua successione alla guida della Fed, anche se il suo mandato scade nel maggio del 2026. In corsa per il dopo-Powell ci sono il consigliere economico di Trump Kevin Hasset, l'ex membro della Fed Kevin Warsh e il segretario al Tesoro. "Ho il lavoro migliore in tutta Washington" ma "farò quello che vuole Trump", ha detto Scott Bessent in un'intervista a Bloomberg, ribadendo che Trump non vuole licenziare Powell. Eppure, gli osservatori sospettano che gli attacchi dell'amministrazione al presidente della Fed siano un tentativo, neanche troppo velato, per spianare la strada al licenziamento di Powell. L'accusa è quella di sprecare fondi e risorse per i lavori di ristrutturazione della sede della banca centrale in "stile Versailles". Il presidente della Fed non si è finora lasciato sfiorare dagli attacchi e, anzi, ha risposto sul sito della banca centrale fornendo tutte le informazioni sulla contestata ristrutturazione. Anche il fatto che, a dispetto delle accuse, non è carico dei contribuenti americani ma è pagata dalla Fed con gli interessi e le commissioni riscosse dalle banche.