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Economia
1 ore fa

"L'Italia deve tornare a ispirare": Riccardo Freddo porta l'arte globale nei silenzi dei borghi nostrani

(Teleborsa) - C’è chi porta l’arte dove c’è il mercato, e chi porta il mercato dove l’arte può rinascere, rifiorire. Riccardo Freddo, Institutional and Museum Liaison della galleria Rosenfeld di Londra, appartiene decisamente alla seconda categoria. Con una visione che intreccia economia, storia dell’arte e una sorprendente sensibilità per i luoghi - da grande viaggiatore quale è, Freddo sta attuando un progetto curatoriale ambizioso: far dialogare artisti internazionali con i borghi italiani, risvegliando una tradizione di sperimentazione che aveva fatto dell’Italia, tra gli anni ’60 e ’70, un epicentro globale dell’avanguardia.Nel cuore di questo percorso ci sono due mostre site-specific inaugurate tra giugno e luglio, e molte altre a venire tra la fine del 2025 e il 2026: dal 6 giugno al 6 settembre a Gradara, il borgo che ha fatto da cornice all’amore tragico e clandestino di Paolo e Francesca, il giapponese Keita Miyazaki è in mostra con "Post-Apocalyptical Bloom" per raccontare una nuova armonia tra uomo, natura e tecnologia, in cui la distruzione si trasforma in rinascita, la meccanica si fonde con l’organico, e l’arte diventa un giardino post-apocalittico. A Perugia, dal 12 al 30 giugno la Rocca Paolina ospita "Materia", del maestro austriaco Herbert Golser che modella il legno come se emergesse dalla pietra stessa, in dialogo con Alberto Burri e il Grande Nero. Due interventi profondamente diversi, ma accomunati dall’ascolto del contesto, dalla scelta della materia e da una progettualità che Freddo definisce “immersiva, trasformativa, essenziale”.In un tempo in cui l’arte corre dietro all’hype digitale o all’attivismo estetico, il visionario  esperto di arte contemporanea invita a rallentare, a tornare all’esperienza fisica, alla relazione tra uomo, natura e cultura: di seguito l’intervista.La sua formazione spazia dall'economia alla finanza internazionale e culmina in una specializzazione in Art Business. In che modo questa combinazione di competenze influenza il suo approccio curatoriale e la gestione della galleria, specialmente nel bilanciare il valore culturale e quello più squisitamente economico?Credo fermamente che oggi il mondo dell’arte richieda figure ibride, capaci di muoversi con disinvoltura tra visione culturale e intelligenza strategica. La mia formazione in economia e finanza mi ha insegnato a leggere i dati, a comprendere i trend e a valutare il rischio — competenze essenziali quando si lavora con collezionisti o si pianifica la crescita di una galleria. Ma è nel mio percorso nell’Art Business, tra New York e Parigi, che ho compreso quanto l’arte sia anche un linguaggio emotivo, relazionale, culturale. Curare una mostra, per me, significa offrire un'esperienza potente, ma anche costruire un progetto solido, sostenibile, in grado di generare valore nel tempo. Il punto non è separare i due mondi, ma integrarli: un’opera ha tanto più valore economico quanto più è significativa sul piano storico, estetico, simbolico.Lei ha lavorato e vissuto in molte città come New York, Los Angeles, Londra, Parigi e Roma: come queste diverse realtà culturali e di mercato hanno modellato la sua visione nel promuovere gli artisti che sceglie?Ogni città mi ha insegnato qualcosa di profondamente diverso. A New York ho imparato la velocità, la potenza di una visione chiara; e la necessità di “make things happen”,  a Los Angeles, l’apertura alla sperimentazione e il valore del contesto spaziale. Londra è la città della struttura, delle istituzioni, della storia che si rinnova; Parigi invece è ancora il luogo del pensiero, della critica, della bellezza intellettuale. E Roma — Roma è casa, con il suo senso del tempo lungo e della stratificazione culturale, con il suo mix di “high and low culture”.Vivere e lavorare in questi ambienti mi ha insegnato a essere fluido, ad adattarmi e soprattutto ad ascoltare. Gli artisti che promuovo non li scelgo solo per la qualità delle opere, ma per la loro capacità di raccontare qualcosa di urgente, di vero. La mia visione è globale, ma radicata: cerco sempre di capire come un artista possa risuonare con il tempo presente, e con il pubblico, ovunque si trovi.La galleria Rosenfeld a Londra sta mettendo in campo una bella operazione: quella di avvicinare artisti internazionali al patrimonio culturale italiano, in particolare attraverso progetti site-specific in piccoli borghi come Gradara o Perugia. Ci può spiegare qual è la visione dietro questa interessante progettualità?Credo che l’Italia sia oggi la cornice più affascinante — e forse anche la più sottovalutata — per l’arte contemporanea. I nostri borghi, i nostri paesaggi, i nostri silenzi hanno una forza evocativa che può generare un dialogo straordinario con linguaggi artistici anche molto distanti. Negli anni ’60 e ’70, il Festival dei Due Mondi di Spoleto ha accolto figure come Andy Warhol, Cy Twombly, e persino Joseph Beuys, che ha realizzato una storica performance alla Rocca Paolina a Perugia. In quegli anni l’Italia era un punto di riferimento per l’avanguardia internazionale.Quello spirito si è in parte perduto, ma è proprio ciò che voglio recuperare. Personalmente tra il 2025/2026 ho programmato una decina di mostre museali in Italia — da Villa Giulia a Roma a Santa Maria della Scala a Siena, fino a Ca' Pesaro a Venezia — perché sono profondamente convinto che il nostro Paese sia la scenografia ideale per raccontare l’arte contemporanea. Il mio desiderio è far conoscere il più possibile artisti internazionali al pubblico italiano, creando ponti tra mondi, culture e sensibilità diverse.Gli artisti che invitiamo non si limitano a “esporre” in un luogo, ma si confrontano con la sua anima, la sua storia, le sue ferite. E per loro — spesso cresciuti in contesti urbanizzati, globalizzati, iperconnessi — vivere e creare in Umbria o nelle Marche diventa un’esperienza trasformativa. L’Italia ha bisogno di credere di più nella propria capacità di palcoscenico internazionale e origine di ispirazione per il futuro.Approfondiamo il discorso proprio sui due artisti che da giugno sono in mostra con galleria Rosenfeld tra Marche e Umbria: Keita Miyazaki e Herbert Golser sono profondamente diversi per linguaggio, tecniche e background. Cosa li accomuna sotto il suo sguardo curatoriale? E come le loro opere dialogano e si legano con il contesto storico e paesaggistico italiano?Keita Miyazaki e Herbert Golser hanno linguaggi estremamente differenti, ma li unisce una caratteristica fondamentale: sono entrambi scultori che lavorano con la materia in modo autonomo e rispettoso del contesto. Le opere esposte sono tutte free-standing, il che significa che non alterano lo spazio ma lo abitano, lo amplificano.Keita usa un ossimoro di materiali, mischiando la pesantezza del ferro con la leggerezza della carta in modo incredibilmente poetico, quasi surreale; Golser invece lavora il legno con una delicatezza assoluta, in dialogo silenzioso con l’architettura e la storia. A Perugia, nella Rocca Paolina, le opere di Golser sembrano nate da quelle pietre; e a Gradara, i lavori di Keita creano un contrasto affascinante con il borgo medievale. È proprio questo che cerco: artisti che siano capaci di creare un corto circuito tra il presente e la storia, tra l’estetica e lo spazio che la ospita.Molti curatori della sua generazione si muovono tra arte e attivismo, o arte e nuovissime tecnologie. La sua progettualità sembra invece fondarsi sul silenzio, sull’ascolto e sulla relazione tra uomo e natura. Crede che oggi ci sia un bisogno di ritorno all’essenziale nel fare arte e nel curarla?Assolutamente sì. Viviamo in un’epoca iperconnessa, iperstimolata, e credo che proprio per questo ci sia un bisogno profondo di silenzio, di spazio interiore, di lentezza. La mia progettualità nasce da qui: dal desiderio di creare esperienze immersive e quasi spirituali, dove il visitatore possa sentirsi parte di qualcosa di autentico.Amo l’arte concettuale, ma credo anche che tecnica e materia abbiano un valore insostituibile. Voglio mostre che durino nel tempo, che resistano alle mode. “The Place of Silence”, (il luogo del Silenzio) la residenza d’artista che ho fondato in Umbria, è il laboratorio ideale per questo tipo di pensiero: lì l’arte nasce dal paesaggio, dall’ascolto, dalla relazione. È un invito a rallentare, a sentire. E credo che sempre più persone — curatori, artisti, collezionisti — ne sentano oggi il bisogno.Oggi molti collezionisti, specie quelli under 40, mostrano attenzione a criteri ESG anche quando acquistano pezzi di arte. In che modo questo aspetto, secondo lei, può influire sul valore percepito delle opere?Penso che collezionare arte oggi significhi fare una scelta culturale, ma anche etica. Molti collezionisti della nuova generazione vogliono sentirsi parte attiva di un cambiamento, e scelgono artisti che parlano dei temi del nostro tempo: sostenibilità, identità, memoria, giustizia sociale.Ma attenzione:...
Fonte: Teleborsa