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Economia
5 ore fa
MidCap italiane sempre più prede di private equity esteri con benefici per la crescita
(Teleborsa) - Negli ultimi vent'anni è costantemente cresciuto il numero di investimenti di operatori di private equity nelle medie imprese italiane, con una crescente operatività di investitori finanziari stranieri attratti dal Food & Beverage e da imprese più grandi. Il Private Equity ha dimostrato di essere un partner strategico, in grado di apportare alle aziende non solo risorse finanziarie, ma anche competenze manageriali e un ampio network relazionale, con una performance economica rafforzata dopo l'ingresso nelle società (in media +25% fatturato, +17,6% occupazione, +81,9% attivo). È quanto emerge da una corposa ricerca sui primi due decenni del XXI secolo realizzata da Area Studi Mediobanca, LIUC Business School e Ufficio Studi e Ricerche di AIFI.La mappa degli investimentiL'analisi ha riguardato 319 medie imprese manifatturiere a controllo italiano nelle quali hanno fatto ingresso fondi di PE ed altri investitori finanziari durante il ventennio che va dal 2001 al 2021. L'82,1% delle operazioni ha visto l'intervento di fondi chiusi di PE, mentre nel 9,4% dei casi si è trattato di una holding di investimento. La parte restante ha coinvolto operatori di diversa natura, tra i quali club deal e family office. "Il mondo imprenditoriale ha compreso l'importanza di avere un fondo al proprio fianco nei momenti di cambio di passo e lo vediamo dal numero delle operazioni che sono cresciute costantemente in questi ultimi vent'anni", ha detto Anna Gervasoni, Rettore Università LIUC e Direttore Generale AIFI.Quanto alla tipologia di operazione, nel 62% dei casi si è trattato di buy-out (acquisizioni di maggioranza, con uso della leva finanziaria), nel 31% di interventi di expansion (apporto di capitale proprio per la crescita di imprese già avviate), mentre la restante casistica è divisa tra il 4% dei replacement (sostituzione di azionisti di minoranza) e il 3% dei turnaround (risanamento di imprese in difficoltà). Con riferimento invece alla causale dell'investimento (origination), nell'89% delle occorrenze si è osservato l'ingresso diretto nel capitale di imprese private per lo più familiari, nel 7% si è perfezionata la cessione di rami d'azienda, mentre si è fermata al 4% la rilevanza dei Secondary buy out. Degna di nota l'incidenza del 12% dei casi in cui si è dato corso a operazioni di add-on nelle quali l'impresa già partecipata da un investitore finanziario si è resa protagonista di una o più acquisizioni.La dinamica temporale delle operazioni offre ulteriori spunti di interesse. Nel ventennio osservato è infatti costantemente cresciuto il numero di investimenti. Si è passati da una media di 6 operazioni all'anno nel quinquennio 2001-2005, a 11 operazioni nel periodo 2006-2015, per arrivare a 19 nel 2016-2018 e finire con 41 operazioni nel triennio 2019-2021. La conseguenza è che nell'ultimo quinquennio è avvenuto il 51% delle operazioni di tutto il ventennio. Ma sono stati il Covid e le successive turbolenze legate all'inflazione e al contesto geopolitico ad avere ulteriormente accelerato l'urgenza di crescita e managerializzazione delle medie imprese italiane. Non a caso, l'ultimo anno osservato, il 2021, ha segnato il massimo storico dell'intero ventennio con un picco 51 operazioni, ovvero il +42% sia sul 2020 che sul 2019 e il +143% sul 2018."Le grandi discontinuità dell'ultimo lustro hanno portato a definitiva maturazione la consapevolezza da parte del nostro family business della necessità di imprimere un salto dimensionale e manageriale alle proprie imprese - commenta Gabriele Barbaresco, Direttore dell'Area Studi Mediobanca - I numeri della ricerca raccontano che i fondi di PE hanno saputo intercettare questa esigenza, offrendo leve efficaci ma al contempo calibrate sulle singole storie imprenditoriali".Un dato che supporta il vivace interesse verso le MidCap italiane è rappresentato dalla crescente operatività di investitori finanziari stranieri. Se nel 2018 le operazioni concluse da soggetti esteri hanno rappresentato circa un quarto del totale, nel triennio 2019-2021 tale incidenza è pressoché raddoppiata al 46%.La concentrazione regionale delle imprese target appare evidente. Il 60% delle operazioni si è localizzato nelle tre regioni italiane a maggiore vocazione manifatturiera: Lombardia, dove ha sede il 29% delle imprese investite, Emilia-Romagna (16%) e Veneto (15%). Seguono il Piemonte, con il 12% delle operazioni e la Toscana (9%). A livello settoriale, il 45% delle aziende target opera nella produzione di beni industriali (B2B), il 55% in quella di beni di consumo (B2C).Il 43% degli investimenti ha avuto ad oggetto imprese con un fatturato medio inferiore a 30 milioni di euro; un ulteriore 33% ha riguardato imprese tra i 31 e i 60 milioni. Solo il 10% delle operazioni ha riguardato aziende con più di 100 milioni di euro di fatturato.Gli investimenti esteri hanno coinvolto imprese di maggiori dimensioni: 66 milioni di euro di fatturato medio vs i 48 milioni dei target degli operatori nazionali. Le imprese target del Nord Italia, con 57,4 milioni di euro di fatturato medio, superano quelle del Centro con 39,6 milioni e del Sud e isole con 40,9 milioni. A livello settoriale, le imprese del comparto alimentare sono le più grandi (69 milioni di euro il fatturato medio), quelle del settore pharma e biopharma le più piccole (39,2 milioni).La dimensione delle imprese target varia anche con la natura dell'investitore. I fondi di PE hanno privilegiato target con giro d'affari medio di 55 milioni, più limitata la taglia d'interesse di club deal e family office, tra i 30 e i 40 milioni di fatturato, mentre l'intervento dei fondi sovrani si orienta verso aziende con vendite superiori ai 100 milioni di euro.I profili delle imprese targetI criteri centrali di selezione delle imprese target da parte dei fondi di PE e degli altri investitori finanziari sono tre: elevata marginalità, ridotto indebitamento ed elevata propensione all'export. Infatti, nell'anno precedente l'ingresso dell'investitore, le imprese target hanno conseguito un EBITDA margin medio del 12,7%, ampiamente superiore all'8,5% delle imprese che non vedranno l'anno successivo l'ingresso di un investitore (il cosiddetto campione di controllo). Non solo: sempre un anno prima dell'ingresso, le imprese target riportano un rapporto tra posizione finanziaria netta (la PFN) e l'EBITDA mediamente inferiore a 1,5 volte, anche in questo caso configurando un quadro molto più favorevole rispetto al rapporto pari a 3 volte caratteristico del campione di controllo. Ultimo, ma non meno importante: le imprese target ante ingresso hanno una spiccata propensione all'export che si traduce in rapporto tra esportazioni e fatturato totale pari al 48,5%, con evidente scarto positivo nei confronti del 43% proprio del campione di controllo.Dopo l'ingresso dell'investitoreUn primo e rilevante effetto riguarda il fatto che le imprese investite imboccano una decisa traiettoria di crescita che risulta sensibilmente superiore a quella del campione di controllo. Infatti, nel biennio successivo all'ingresso, l'investitore finanziario imprime al fatturato una crescita media cumulata del 25%, che quasi triplica il +9,2% del fatturato delle imprese con caratteristiche similari ma che non sono state oggetto di investimento. La crescita non è solo commerciale, ma coinvolge anche la base occupazionale con potenziali ricadute positive sulle comunità circostanti le imprese investite. Il numero di dipendenti aumenta del 17,6%, in questo caso segnando un distacco abissale rispetto al +1,3% del campione di controllo. Infine, anche il totale attivo va soggetto ad un'espansione assai marcata, con un +81,9% nel biennio che è quasi sei volte superiore alla pure importante crescita del +13,8% consuntivata dalle imprese non target.Ma ci sono anche variabili che non manifestano un abbrivio diverso da quello del campione di controllo. È il caso della propensione all'esportazione, della produttività e dell'EBITDA. Secondo la ricerca, si tratta di evidenze coerenti con il fatto che le imprese target esprimevano profili di eccellenza già prima dell'ingresso del nuovo investitore. La strategia di crescita rappresenta la priorità operativa e l'opzione che la precedente proprietà, per lo più familiare, non è stata in grado di esercitare per le note resistenze che caratterizzano il family business. È peraltro plausibile che l'accelerazione impressa alla crescita si riverberi su queste ultime variabili su un orizzonte di tempo più lungo rispetto al biennio osservato. Secondo la ricerca c'è anche un aspetto molto rilevante e che sgombra il campo dalla possibile obiezione che gli investitori finanziari promuovano processi di crescita eccessivamente aggressivi e con smisurato ricorso alla leva finanziaria. Se infatti è vero che nel biennio post ingresso si rileva un incremento della PFN del +63%, rispetto a un calo di pari grandezza del campione di...
Fonte: Teleborsa